di Manuela
Romitelli
Diventare mamma è
il sogno di molte donne, ma cosa accade quando questo sogno non si
avvera? Esistono, allo stato attuale, diverse procedure che
possono intervenire laddove la natura genetica si blocca. Procedure
difficili, lunghe, complesse, e che molte volte possono allontanare
ancora di più il desiderio di maternità. Sono veri e propri
viaggi emotivi, oltre che fisici, a caratterizzare questi percorsi
verso la ricerca di un figlio. Sono percorsi differenti che ogni
donna vive a suo modo.
Raccontiamo la
storia di Gina Lacala, 34 anni: "Mi considero europea a
tutti gli effetti. Sono nata in Germania, mio padre è italiano e mia
mamma era francese. Fino a 19 anni ho vissuto principalmente a Monaco
di Baviera. Finite le superiori, ho deciso di andare a vivere e
studiare a Teramo (Abruzzo). Sono rimasta in Italia fino al 2015,
anno in cui sono stata selezionata per un tirocinio presso la
Commissione Europea. Io e mio marito, allora fidanzato, abbiamo
deciso di partire per questa avventura".
Hai vissuto tra
Germania, Francia, Italia e Belgio: cosa ti ha dato ognuno di questi
Paesi?
"Vivere in
diversi paesi e assorbirne la cultura mi ha sicuramente portata ad
avere una mente aperta, a vedere le cose da diversi punti di vista e
ad accettare la diversità. In realtà non mi sento davvero parte di
una cultura al 100%. La cultura di una società la acquisisci
vivendoci fin da piccolo e comprende molte cose di cui non ci
rendiamo neanche conto: i modi di dire, l’umorismo, i cantanti, i
programmi della televisione, il cibo, le abitudini, le consuetudini,
il modo di stare insieme, le relazioni tra i diversi membri di una
stessa comunità. Mi sono accorta che mi mancavano i pezzi rispetto a
tutte le culture alle quali appartengo e questo non facilita
l’integrazione. Ho vissuto una grande crisi d’identità appena
arrivata in Italia. Mentre vivendo in Belgio dal 2015, devo ammettere
che sto ancora cercando di capire quale posto sento davvero essere
casa mia".
Diventare mamma non
è stata una strada facile, raccontaci il tuo percorso.
"In realtà, il
voler diventare mamma è stato un percorso graduale. Non sono mai
stata pazza per i bambini e per molti anni non mi sentivo pronta a
compiere questo passo, anzi non sapevo neanche se avrei voluto
diventare mamma. I miei genitori mi hanno sempre spronata ad essere
indipendente economicamente e a mettere la stabilità al primo posto,
quindi per me pensare di diventare mamma senza avere una certa
stabilità era impossibile. Inoltre, sono consapevole dell’impegno
che un figlio richiede, soprattutto se si ha in mente un progetto
educativo e si vuole seguire il figlio durante il suo percorso di
crescita. Nonostante questa mia parte razionale, dentro di me ho
sempre amato e desiderato la famiglia numerosa, ci voleva
probabilmente solo l’evento scatenante".
Cosa ti ha fatto
cambiare idea?
"Primo, l’aver
trovato un uomo che mi ama, con il quale sto condividendo la mia vita
e con il quale posso fare progetti. Secondo, l’essermi resa conto
che, stando lontani dalla famiglia, siamo sostanzialmente soli, al
contrario di quello che vorrei, e che un figlio ti può portare tanta
gioia. Terzo, mia mamma mi ha fatto capire che la stabilità al 100%
non esiste e che vale la pena rischiare perché alla fine le
soluzioni si trovano sempre. Così alla fine del 2017, abbiamo
iniziato a cercare un figlio, senza sapere che pochi mesi dopo avrei
intrapreso un percorso tortuoso tra inseminazioni e fecondazioni in
vitro. Nel 2019 ho affrontato due aborti spontanei e due
raschiamenti. Dopo tutte queste esperienze, fortunatamente, siamo diventati genitori di Marco".
Come hai vissuto il
percorso di fecondazione assistita che hai seguito in Belgio?
"Devo dire che
sono stata molto fortunata ad aver intrapreso questo percorso in
Belgio, perché qui ci sono dei centri di altissimo livello. Il
sistema sanitario permette di affrontare tutto senza perdite di
tempo, ed è previsto il rimborso dall’assicurazione".
Emotivamente come è
stato affrontare tutto questo?
"A livello
psicologico ho intrapreso questo percorso con determinazione e
positività. Sapevo già, da quando avevo 19 anni, che avrei
probabilmente avuto bisogno di un aiutino il giorno in cui avrei
deciso di avere figli, poiché mi hanno diagnosticato la sindrome da
ovaio policistico. Forse ho avuto un po’ di apprensione per la
fecondazione in vitro, perché non sapevo come avrei reagito a questi
alti dosaggi ormonali e che bisognava fare un intervento per estrarre
gli ovuli, ma poi quando sai di non avere scelta, vedi le cose
diversamente e cerchi di prenderle con un pizzico di leggerezza.
Sicuramente un ruolo importante lo ha svolto l’equipe medica, che è
stata sempre molto accogliente e rassicurante, e ovviamente mio
marito che si è offerto di farmi le punture sulla pancia. Infine,
devo dire che, contrariamente a quanto riportato da molte donne, le
terapie non hanno influito sul mio umore, per cui posso dire che l’ho
vissuta molto bene".
Hai vissuto anche
momenti di sconforto legati proprio ai trattamenti?
"Certo! È
chiaro che non è tutta una passeggiata. Sai quando inizi ma non sai
quando finisci. Così in un attimo sono passati due anni, durante i
quali abbiamo vissuto attese per i test di gravidanza, delusioni per
i trattamenti poco efficaci, dosaggi da adattare al mio corpo, esami
poco piacevoli come l'isterosalpingografia. Ci sono stati momenti
dove mi sono chiesta se ne valeva la pena, mi sentivo un pesce fuor
d’acqua in mezzo a tutte quelle donne giovani e meno giovani alla
ricerca di un figlio. Molte donne si arrendono già in partenza al
solo pensiero di dover fare le punture ormonali sulla pancia. Altre
lo considerano una forzatura e preferiscono non ricercare le cause
dietro alla difficoltà a concepire figli naturalmente. Nonostante i
miei dubbi, ho comunque continuato perché non volevo rimpianti e
anche se rispetto chi decide di non fare questo percorso, lo trovo un
peccato perché in fin dei conti la medicina ci può aiutare.
Inoltre, c’è da dire che a volte le cause sono facilmente
risolvibili. Oggi la fertilità è un grande problema e al contrario
di ciò che si può pensare dipende anche spesso dagli uomini. Per
cui fare degli esami come coppia può essere d’aiuto e dare delle
prospettive".
Come funziona
esattamente la procreazione assistita?
"Prima di
arrivare a consultare degli esperti, in genere tutte le coppie
cercano di avere rapporti mirati grazie al rilevamento della
temperatura corporea della donna e i test di ovulazione che si
trovano sul mercato. In genere se dopo un anno non riesci a rimanere
incinta allora conviene consultare degli esperti. Nel mio caso questo
periodo è durato molto meno, visto che già sapevo di avere l’ovaio
policistico e dei cicli completamente sballati, quindi non abbiamo
perso tempo".
Il percorso in sé
come avviene?
Il percorso di
procreazione assistita prevede più fasi. Per prima cosa, la coppia
deve fare diversi esami, prima che la donna possa iniziare i
trattamenti ormonali, poiché i medici devono capire se il
trattamento è davvero necessario o se vi sono altre problematiche
che bisogna affrontare. È da notare che vi sono coppie che,
apparentemente, non presentano nessun problema di infertilità e che
si trovano comunque a dover ricorrere alla procreazione assistita.
Una volta fatti tutti gli esami, i medici prescrivono il trattamento
da effettuare a casa. Nel mio caso, ho dovuto fare delle punture
ormonali sulla pancia per stimolare l’ovulazione e fare dei
controlli, ovvero analisi del sangue ed ecografia, ogni due giorni in
prossimità dell’ovulazione. Una volta che l’ovulo aveva
raggiunto la dimensione desiderata si procedeva con l’inseminazione.
Questo trattamento non ha funzionato nel nostro caso, così i medici
hanno deciso di optare per la fecondazione in vitro. In questo caso i
dosaggi ormonali sono molto più elevati, poiché idealmente la donna
deve produrre una decina di ovuli da poter poi fecondare in provetta.
Una volta che gli ovuli arrivano a maturazione, vengono prelevati con
un ago sotto anestesia locale, per poi essere subito fecondati
dall’equipe di biologi. Tre giorni dopo, valutano se gli ovuli si
sono sviluppati, ovvero se la divisione cellulare è avvenuta e se è
avvenuta in modo corretto".
Poi che succede?
Successivamente, si
effettua il trasferimento dell’embrione che è una procedura
semplice e indolore: l’embrione viene semplicemente posizionato
nell’utero e poi bisogna aspettare che attecchisca e si nidifichi
nella parete uterina. Gli altri ovuli fecondati vengono
crioconservati (congelati) per un tempo stabilito dalla legge e
possono essere successivamente scongelati per essere trasferiti".
Qual è il momento
più difficile da affrontare quando si ha un aborto spontaneo?
"Ho vissuto due
aborti molto diversi e conseguentemente le emozioni che ho provato
erano anche molto diverse. Nel primo caso, ero rimasta incinta dopo
il primo tentativo di fecondazione in vitro che non era andato bene,
visto che avevo portato a maturazione un solo ovulo. I medici avevano
deciso di tentare con l’inseminazione e avevano avuto ragione.
Quando ci hanno annunciato che il risultato del test di gravidanza
era positivo, lo abbiamo vissuto come un miracolo. Non avremmo mai
pensato che l’ovulo si sarebbe fecondato e impiantato. Per cui,
quando inizialmente stava andando tutto bene e arrivammo anche a
sentire il cuoricino battere, ci sentivamo al settimo cielo e
decidemmo di annunciarlo ai familiari. Purtroppo, all’ecografia
della settima settimana ricevemmo la notizia che nessuno vorrebbe mai
ricevere. Mi ricordo ancora quel giorno quando alla visita di
controllo la ginecologa posizionò l’ecografo e dopo qualche minuto
e con uno sguardo sconcertato chiese all’assistente “a che
settimana siamo?”. Poco dopo mi disse “mi dispiace ma non c’è
battito”. Fu una doccia fredda e rimanemmo increduli. Mi sentivo
come se un coltello mi avesse appena trafitto il cuore. Ecco, quello
penso sia stato il momento più brutto. Poi, fino al raschiamento è
stata dura, non solo perché ho dovuto annunciare a tutti che lo
avevamo perso, ma anche perché sapevo di dover convivere con questo
corpicino che era dentro di me senza vita. Non smettevo di pensare
che era tutto finito, così all’improvviso. Il sollievo è arrivato
con l’intervento, che ho vissuto come una liberazione. Era il
momento di voltare pagina, di pensare al futuro con positività.
Avevo deciso che non mi sarei arresa, che sarei rimasta forte come
una roccia perché alla fine intorno a me stavo conoscendo tante
donne che avevano vissuto quello che stavo vivendo io. Provavo anche
gratitudine perché la natura aveva fatto quello che doveva fare
prima che fosse troppo tardi".
Poi cosa è
successo?
"Qualche mese
dopo il primo raschiamento rimasi di nuovo incinta, grazie al secondo
tentativo di fecondazione in vitro che, questa volta, andò a buon
fine. Contrariamente alla prima gravidanza, già dalle prime analisi
capimmo che c’era qualcosa che non andava. I livelli degli ormoni
hcg (gli ormoni della gravidanza) non erano raddoppiati come
previsto. Nelle settimane successive la crescita fetale era anomala,
poiché il piccolo presentava un ritardo di due settimane. All’ottava
settimana i medici decisero di procedere con il raschiamento, poiché
erano ormai certi che non si sarebbe mai sviluppato come avrebbe
dovuto. In questo caso, ciò che mi aveva fatto soffrire di più era
il fatto di dovermi interfacciare sempre con un ginecologo diverso
dalla mia ginecologa di riferimento, poiché in questa clinica è
prevista la rotazione del personale. Ognuno vedeva le cose in modo
diverso e aveva i propri dubbi. Così c’era chi voleva ancora
aspettare e chi mi aveva già detto che non c’erano speranze.
L’intervento fu di nuovo una liberazione. Ancora una volta avevo
deciso di non arrendermi, anche se era più difficile stavolta, visto
che ne avevo persi due, uno dopo l’altro, e rientravo nella
casistica degli aborti ripetuti e non più occasionali".
Dev'essere stato
difficile.
Sì, infatti ho
iniziato a chiedermi se avevo qualche problema e avevo paura che era
solo l’inizio di una lunga trafila di aborti. Ho iniziato anche a
dubitare dell’equipe medica, e temevo che non mi avevano fatto fare
abbastanza esami. Poi ci hanno fatto fare l’esame del cariotipo (il
DNA materno e paterno) e la mia ginecologa ci ha spiegato che
purtroppo può succedere di avere due embrioni non compatibili con la
vita e che è un bene quando la gravidanza si interrompe allo stadio
iniziale. All’inizio del 2020, ho iniziato con la cura ormonale in
previsione del secondo transfer, il quale non è mai avvenuto a causa
del Covid19. Con il lockdown e le incertezze sugli effetti che il
virus poteva avere sullo sviluppo dell’embrione, i medici hanno
deciso di interrompere tutto. Io ho subito pensato che non potevo
dipendere da una clinica per diventare mamma. Ormai avevo imparato a
conoscermi, e il mio corpo, ancora imbottito di ormoni, aveva
iniziato a funzionare anche da solo. Ci abbiamo provato naturalmente
e a fine aprile ho fatto il test di gravidanza ed è risultato
positivo".
Parlare di aborto è,
ancora oggi, una sorta di tabù, cosa diresti alle donne che hanno
subìto questo e si vergognano?
"L’aborto è
un vero e proprio lutto e penso che molte donne non ne parlino per
non rivivere il dolore della perdita. A questo si possono aggiungere
sentimenti di colpa e vergogna, che possono essere dovuti a diversi
fattori: sociali, relazionali o semplicemente concernenti le cause
dell’aborto stesso. Viviamo in una società dove vi è ancora la
convinzione che per essere donne bisogna avere figli e essere in
grado di procreare, perciò alcune donne non si sentono all’altezza
delle aspettative sociali. In alcune coppie sono anche i partner a
incolparsi a vicenda, attribuendo ad esempio l’aborto allo stress o
all’incapacità della donna di portare avanti la gravidanza. La
solitudine delle donne può anche dipendere dal fatto che il partner
non riesce a provare empatia e a capire cosa significhi perdere un
figlio. Questo dipende spesso dal fatto che gli uomini vivono la
gravidanza come qualcosa di molto astratto, poiché non la vivono in
prima persona e non riescono a immaginare che il legame madre-figlio
si crea già fin dall’inizio".
Cosa consiglieresti
a una donna che in questo momento ha perso un figlio e non vuole più
lottare?
"Il modo in cui
affrontiamo eventi difficili come l’aborto dipende da una serie di
aspetti: il vissuto, il carattere, il nostro modo di essere, ecc.
Penso che ognuno di noi sa quanto è in grado di sopportare. Io mi
ero detta che un terzo aborto sarebbe stato davvero difficile per me
e che a quel punto mi sarei presa una pausa di riflessione. C’è
anche da dire che per me un figlio rappresenta una ciliegina sulla
torta, mentre molte coppie non si sentono al completo se non riescono
ad avere figli. Io mi ero totalmente lasciata andare all’idea che
se Dio avesse voluto, saremmo stati felicissimi di accogliere una
nuova vita, altrimenti saremmo stati comunque felici come coppia.
Penso che questo ci ha aiutati e mi ha aiutata a non farne una
fissazione. Tuttavia, so che ci sono donne che vanno in depressione e
non hanno più voglia di combattere. Consiglierei loro di rivolgersi
ad uno psicologo che le possa aiutare a risollevarsi ed eventualmente
a ritrovare la forza di lottare, oppure ad accettare di non voler più
cercare e di poter stare comunque bene e vivere in pace con se
stesse. Spesso è proprio in questi momenti che capita la cosa più
inaspettata".
Per approfondire:
ISTAT - Aborti spontanei
IRCCS - Aborto spontaneo
MSD - Aborto spontaneo
Fertilità femminile - VIDEO
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Gina Lacala |
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